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09/04/2018: L'ADUNANZA DEL 18 APRILE TRATTERÀ DELLE PROCEDURE NEGOZIATE E DELLA CITTADINANZA DEL DIRETTORE DI UN MUSEO

Il prossimo 18 aprile l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato tratterà le questioni:

1) se possano partecipare alla selezione per il conferimento di incarichi di Direttore di museo anche i candidati aventi non la cittadinanza italiana, ma quella di un altro Stato dell’Unione europea. 

La questione è stata rimessa dalla sez. VI del Consiglio di Stato con sentenza 2 febbraio 2018, n. 677

La Sezione ha richiamato la sentenza della stessa sez. VI, 24 luglio 2017, n. 3666, che ha ritenuto che l’attività posta in essere dal direttore del museo statale sarebbe «prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica» dell’istituto, nonché «essenzialmente finalizzata» ad una migliore utilizzazione e valorizzazione di beni pubblici. In particolare, la sentenza ha escluso che si possano considerare come «espressione di potere pubblico» alcuni specifici compiti attribuiti al direttore dall’art. 35, d.P.C.M. n. 171 del 2014, che, seguendo l’ordine dell’articolo stesso, sono quelli per cui «programma, indirizza, coordina e monitora tutte le attività di gestione, valorizzazione, comunicazione e promozione del sistema museale nazionale nel territorio regionale» (lett. a), «autorizza il prestito dei beni culturali delle collezioni di propria competenza per mostre od esposizioni sul territorio nazionale o all'estero» (lett. l), «dispone … l'affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione di beni culturali» (lette. n), «svolge le funzioni di stazione appaltante» (lette. u). La stessa sentenza ha infine escluso che si possano considerare «espressione di potere pubblico» ulteriori compiti di amministrazione e di controllo dei beni in consegna, esplicitati nel bando del 7 gennaio 2015 e non espressamente previsti dall’art. 35, d.P.C.M. n. 171 del 1994: essa ha ritenuto che le attività di programmazione, indirizzo e controllo riguarderebbero «ambiti di rilevanza non autoritativa» nella gestione dell’istituto, che l’autorizzazione al prestito dei beni sarebbe sporadica, e comunque, pur in presenza di un atto amministrativo, si inserirebbe «nell’ambito di rapporti economici e tecnici» e che le attività di affidamento e di stazione appaltante, anch’esse marginali, riguarderebbero la «gestione economica». In conclusione, la sentenza n. 3666 del 2017 ha ritenuto che l’attività di direttore del museo statale non potrebbe intendersi riservata a cittadini italiani e che sarebbero di per sé legittimi gli atti che hanno consentito la partecipazione di cittadini dell’Unione e la loro nomina fra i vincitori.

La sentenza n. 3666 del 2017 ha completato l’esame, soffermandosi sulla portata dell’art. 22, comma 7 bis, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (per il quale «L'art. 14, comma 2 bis, d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all'art. 38, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165») e rilevando che esso avrebbe una «sua utilità per il futuro contribuendo a fornire chiarezza alle pubbliche amministrazioni e agli operatori del settore evitando incertezze applicative anche nella fase della risoluzione delle controversie di competenza della giustizia amministrativa».

La Sezione ha invece ritenuto di dare una interpretazione diversa del sopra richiamato quadro normativo e che: a) si possa affermare il principio per il quale l’art. 1, comma 1, lett. a), del regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 – mai successivamente abrogato, neppure dall’art. 14, comma 2 bis, d.l. n. 83 del 2014 – richieda imprescindibilmente la cittadinanza italiana per il conferimento di incarichi di livello dirigenziale, sia applicabile nel giudizio sottoposto al suo esame e non si ponga in contrasto con la normativa della Unione Europea; b) quanto meno, il contrasto del medesimo art. 1, comma 1, lett. a), con la normativa della Unione Europea non risulta «evidente».

La Sezione ha quindi ritenuto di dover rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria ulteriori considerazioni, che potrebbero far condurre alla conclusione di considerare conforme al diritto europeo l’art. 1, comma 1, lett. a), del regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 174 del 1994, come richiamato dal d.P.R. n. 487 del 1994.


Tali considerazioni riguardano non solo aspetti concernenti il quadro normativo nazionale, ma anche quelli riguardanti i limiti entro i quali è prospettabile – sulla questione - un contrasto tra la normativa nazionale e quella della Unione Europea


La sentenza n. 3666 del 2017 ha ritenuto che si debba disapplicare la norma del d.P.C.M. n.174 del 1994 risultante in contrasto con il diritto europeo.


Ad avviso della Sezione, invece, non risulta disapplicabile l’art. 2, comma 1, lett. a) e b), d.P.C.M. n.174 del 1994, poiché queste disposizioni hanno previsto la necessità della cittadinanza italiana: a) per «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni» (lett. a); b) per «i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia» (lett. b).



Tali disposizioni si basano sul presupposto – effettivamente sussistente - che tali autorità sono poste al «vertice amministrativo» e sono titolari di consistenti poteri autoritativi, il cui esercizio è idoneo ad incidere unilateralmente sulle altrui sfere giuridiche, con l’applicazione di «regole esorbitanti dal diritto comune».

La Sezione, fermi i principi sull’onere di impugnare un regolamento lesivo (cioè ostativo alla pretesa fatta valere) unitamente all’atto autoritativo applicativo, di cui si sia chiesto l’annullamento – ricorda che la disapplicazione (in coerenza col principio iura novit curia) può essere disposta dal giudice amministrativo: a) quando il ricorrente chieda la tutela di diritti soggettivi (ad es. in materia di restituzione di oneri di urbanizzazione) e la pretesa risulti fondata su una disposizione di legge, rispetto alla quale risulti illegittimo il regolamento lesivo per il medesimo ricorrente (Cons. St., sez. V, 24 luglio 1993, n. 799); b) quando il ricorrente chieda la tutela di un interesse legittimo e l’annullamento di un provvedimento (deducendo la violazione di un regolamento e non che questo sia ostativo alla pretesa), ma la domanda vada respinta, perché il regolamento invocato risulta illegittimo (Cons. St., sez.. V, 26 febbraio 1992, n. 154, in un caso in cui – in riforma della sentenza di primo grado - il ricorso originario è stato respinto, nella parte in cui deduceva l’illegittimità di un atto negativo di controllo, che risultava sì in contrasto con un regolamento provinciale, ma che era conforme alla legge provinciale rispetto alla quale il regolamento affermava una regola incompatibile e recessiva).


2) se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe che potuto concorrere quale operatore del settore economico. 

La questione è stata rimessa dalla sez. V del Consiglio di Stato con sentenza 11 gennaio 2018, n. 118

Ha chiarito la Sezione che sul punto si registra un contrasto tra pronunce aderenti alla teoria della chance ontologica e quelle che invece optano per la chance eziologica
Secondo un primo orientamento (sez. III, 9 febbraio 2016, n. 559; id., V sez., 1 ottobre 2015, n. 4592) il risarcimento della chance, a fronte della mancata indizione di una gara, è condizionato dalla prova di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita negato dall’amministrazione per effetto di atti illegittimi. 



Altre decisioni (sez. V, 1 agosto 2016, n. 3450; id. 8 aprile 2014, n. 1672, id. 2 novembre 2011, n. 5837) hanno, invece, riconosciuto in circostanze analoghe, di mancata indizione della gara, il risarcimento della chance vantata dall’impresa del settore. Ciò sulla base del rilievo che, in caso di mancato rispetto degli obblighi di evidenza pubblica (o di pubblicità e trasparenza), non è possibile formulare una prognosi sull’esito di una procedura comparativa in effetti mai svolta e che tale impossibilità non può ridondare in danno del soggetto leso dall’altrui illegittimità, per cui la chance di cui lo stesso soggetto è portatore deve essere ristorata nella sua obiettiva consistenza, a prescindere dalla verifica probabilistica in ordine all’ipotetico esito della gara.

La discriminante tra le due opposte configurazioni si incentra sul rilievo da attribuire alla possibilità di conseguire il bene della vita illegittimamente privato dall’amministrazione e, in particolare, sul grado di probabilità statistica: quale fattore incidente sulla sola quantificazione del danno risarcibile nel primo caso e sull’an stesso del risarcimento nel secondo. 

In altri termini, nell’ambito della dicotomia dei danni risarcibili ex art. 1223 c.c., la teoria della chance ontologica configura tale posizione giuridica come un danno emergente, ovvero come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, la cui lesione determina una perdita suscettibile di autonoma valutazione sul piano risarcitorio. 

La teoria eziologica intende, invece, la lesione della chance come violazione di un diritto non ancora acquisito nel patrimonio del soggetto, ma potenzialmente raggiungibile, con elevato grado di probabilità, statisticamente pari almeno al 50%. Si tratta dunque di un lucro cessante.